venerdì 4 novembre 2011

Servizio pubblico di Michele Santoro: alla conquista di nuovi spazi nella comunicazione

Dallo studio 3 di Cinecittà è iniziata la nuova avventura di Michele Santoro che sbarca in versione multipiattaforma col suo nuovo programma. La prima puntata (delle 26 in programma) ha visto i suoi fedelissimi compagni di sempre tenere banco per più di tre ore dribblando tra i mezzi di comunicazione disponibili al progetto.

Questi i numeri:
L'8,6 per cento di share con 2 milioni 383 mila telespettatori sulle tv locali. Su Sky Tg24 i telespettatori interessati sono stati 600 mila, con il 2,65 per cento di share. Quindi l'audience tv totale dell'esordio di Santoro si attesta sui 3 milioni di telespettatori, con uno share di circa il 13 per cento.
Non male se si pensa che le tre reti RAI hanno avuto complessivamente il 39% e le reti Mediaset il 34%.
Il programma ricalca la consueta struttura molto simile ad Anno Zero anche se per ora manca un contraddittorio tra le forze politiche che sarebbe stato di un efficacia comunicativa maggiore... ma siamo solo all'inizio. Quello che c'è di nuovo, invece, è il tentativo (pienamente riuscito) di cercare nuovi spazi di sinergia tra i mezzi di comunicazione dimostrando che il popolo della rete, con in testa Facebook, costituisce una nuova frontiera praticabile: le prime stime parlano di 400.000 utenti sui siti di Corriere della Sera, di Repubblica e altri 400.000 sui siti del Fatto Quotidiano e dell'associazione Servizio Pubblico, in totale 800.000!

 L'idea di un network, anche se temporaneo, di televisioni private potrebbe dare la stura a nuovi modi di produzione e di distribuzione dei prodotti televisivi che, fino a questo momento, erano appannaggio delle "major" RAI e Mediaset. La parola d'ordine è: Senza editori e senza padroni! Ci sono 100.000 persone coinvolte nell'affare, più di 20 emittenti locali che coprono tutto il territorio nazionale, Sky e lo streaming video in internet. Il sito ufficiale: www.serviziopubblico.it è costruito in modo da poter intervenire, fare proposte, inviare filmati, rispondere a domande, lavorare con lo staff. Oltre a poter visionare alcuni dei momenti del programma stesso.

 È un evento importante nel mondo della comunicazione che, in un momento come questo, cerca nuovi spazi per una partecipazione di un pubblico che ha perduto la sua possibilità di scelta in un panorama sempre più omologante. È anche una sconfitta per quel servizio pubblico (RAI) pagato con i nostri soldi che ritorna saldamente nelle mani dei politici imbarbarendone i palinsesti. Pensate che in contemporanea, nello spazio che era di Anno zero, la seconda rete trasmetteva un film di vent'anni fa (1990): Indiana Jones e l'ultima crociata!

Strana coincidenza: proprio mentre Santoro iniziava la Prima Crociata contro un servizio pubblico che ormai sembra delegittimato a rappresentare le aspettative degli italiani!

martedì 4 ottobre 2011

Terra Ferma di Emanuele Crialese



Quando la legge degli uomini contrasta con la morale comune.  di Giuliano Capani

Ancora un bel film del regista di origine siciliana ma americano di formazione artistica. Un tributo alla sua terra, come gli altri precedenti: Respiro, Nuovomondo. Ma qui la Sicilia diventa una cartina di tornasole per un antica questione: è il problema della legittimità della legge positiva, già affrontato da Sofocle nell’Antigone. Cosa succede quando la legge degli uomini contrasta con la morale comune? E’ legittimo non obbedire alle norme seguendo quella legge non scritta che deriva da imperativi di natura superiore come quelli della solidarietà umana?
Il film, avvalendosi di un cast di attori, guarda caso tutti siciliani, (Mimmo Cuticchio, Beppe Fiorello, Filippo Pucillo, Donatella Finocchiaro) affronta il tema dell’emigrazione clandestina connotandola territorialmente (anche se non facendone espressa menzione) in quel di Lampedusa che ha dovuto affrontare in questi ultimi tempi questo fenomeno con risultati non proprio dignitosi. Ricordiamoci quel che è successo ai deportati di Manduria...

In questo piccolo lembo di terra proteso verso l’Africa una comunità vive di pesca e turismo, saldo nelle sue tradizioni che si esprimono in fatti e comportamenti semplici: quelli dei valori forti che rimangono stabili nel tempo, quelli che provengono dall’essere e sentirsi uomini nell’universo, quelli che in una parola son chiamati nel film: La legge del mare!
Crialese, con sapiente drammaturgia e inquadrature sempre suggestive, ci racconta una sorta apologo: la storia del film si rifà, come dicevamo, al mito tragico di Antigone che viola la legge degli uomini ( il re Creonte) e da sepoltura a Polinice obbedendo alla legge “divina”:

 «Ma per me non fu Zeus a proclamare quell'editto, né la Giustizia che dimora tra gli dèi. [...] Io seguo le leggi sacre e incrollabili degli dèi, leggi non scritte, di quelle io un giorno dovrò subire il giudizio. [...] E non credevo che i tuoi bandi fossero così potenti da sovrastare e sovvertire le leggi morali degli dèi!».

 Alla stessa maniera la solidarietà umana, quasi un istinto primordiale, fa si che il pescatore salvi alcuni profughi etiopici e tra questi una donna incinta, presti loro le prime cure e trattenga la donna a casa della nuora aiutandola a partorire. Ma le leggi degli uomini prevedono che dovesse venire consegnata alla polizia. Di qui inizia il dramma del pescatore e di un intera comunità che si riunisce protestando per l’operato delle forze dell’ordine che sequestrano la barca (unico mezzo di sussistenza della gente di mare) e non è attrezzata, né disponibile a dare soccorso con dignità umana a queste persone che provengono da vicissitudini drammatiche e che vogliono raggiungere soltanto … La TERRA FERMA!

L’attualità del film è evidente e ci pone quesiti e problemi tuttora aperti su come si sia organizzata l’accoglienza (sic!) di questi flussi emigratori: persone che sono sorrette solo dalla speranza di ricongiungersi con i loro parenti o di conquistare una vita migliore… aspirazioni queste, a cui non abbiamo saputo dare una risposta dignitosa.

Il film, di produzione italiana (Cattleya, France2 Cinema, in collaborazione con RAI Cinema e Canal plus) è candidato italiano agli Oscar. Il che ci fa un immenso piacere perché rappresenta degnamente un fenomeno centrale nella nostra comunità europea e riguarda da molto vicino le popolazioni frontaliere (è di pochi giorni fa uno sbarco a Novaglie, LE) che ogni giorno si trovano nelle situazioni descritte sapientemente dal film.

lunedì 27 giugno 2011

Cinema e TV, la realtà e il suo doppio: Ma i sogni svaniscono all'alba?

Fiumi d’inchiostro sono stati scritti sull'impressione di realtà del cinema, dalle origini della settima arte alle moderne neuroscienze. La maggior parte dei pensatori sono concordi nel ritenere che questo fenomeno è dovuto principalmente al suo linguaggio molto simile alla realtà quindi il nostro cervello è abituato a riconoscere come reale ciò che vede e sente.

Questa caratteristica del Cinema, ma anche della televisione, ha fatto si che questi mezzi si siano sviluppati in diverse direzioni ma principalmente sono due le forme che lo hanno contraddistinto fino ad oggi: Fiction e Reality.

Tutti sappiamo distinguere un film da un documentario o la pubblicità da un telegiornale, ma non tutti sappiamo che l'enunciatore del messaggio audiovisivo ha il potere di mischiare le carte e, quindi, far passare per reale ciò che è invece finto! Non mi dilungo a citare i casi assai noti come lo sceneggiato radiofonico La guerra dei mondi (1938) di Orson Welles, dove gli spettatori credettero che la terra fosse stata veramente invasa dagli alieni, o la polemica sorta riguardo allo sbarco sulla luna dove alcuni ritennero essere falsi i filmati degli astronauti sostenendo che fossero stati girati in studio...

La specificità con cui si costruisce il documento audiovisivo (che sia cinema o televisione) ha in se il DNA del falso.

Proprio per queste sue “naturali” proprietà cinema e televisione sono state da sempre oggetto dell’interesse dei politici che cercano di controllarne gli enunciati (programmi e conduttori). E’ proprio di questi giorni la bagarre per neutralizzare i conduttori scomodi al potere governativo.

In Italia, però, si è creata una situazione singolare in quanto un imprenditore televisivo ha fatto la scalata del potere politico avvalendosi dell’uso massiccio delle sue emittenti e ci è riuscito! Stessa cosa sta tentando un imprenditore televisivo locale salentino. Il disegno è molto evidente: si enfatizzano i campanilismi (siamo i migliori), si fortifica l’idea del noi (siamo forti e invincibili), ci si arrocca in una sorta di autarchismo che sa un po’ di ritorno all’economia medievale (non abbiamo bisogno di nessuno noi, siamo autosufficienti, comprate la merce della nostra terra) somministrando così la suggestione di una facile risoluzione dei problemi economico e sociali.

In questi giorni, infatti, sull’emittente locale che si fa promotrice della costituenda Regione Salento, vengono trasmessi vari spot pubblicitari che spingono questa idea separatista in maniera spudoratamente semplicistica.

Non so fino a quanto si è coscienti che è estremamente pericoloso trattare il tessuto sociale come un prodotto commerciale. La pur breve storia dei mass media ce lo ha dimostrato. Ricordate il Duce che nei cinegiornali (la TV di quegli anni) inaugurava aeroporti con gli stessi aerei che si spostavano e sembravano moltiplicarsi virtualmente? L’idea mediatica che si formò era appunto quella di una nazione forte, molto forte, capace di vincere ovunque e comunque… la sovraesposizione dell’immagine del condottiero costituiva l’idea forte che rimandava ad aspettative altrettanto che non potevano essere soddisfatte soprattutto perché era una finction, non la realtà. Proprio coma la pubblicità!

L’uso della televisione a fini di acquisizione del consenso sociale richiede una sorta di identificazione tra l’emittente e gli spettatori, cioè i cittadini devono sentire che la televisione rappresenti le loro aspirazioni, i loro desiderata. E’ per questo che l’emittente locale di cui parliamo scende in campo mettendo in primo piano 10 battaglie sulle quali nessuno può essere contrario: Ambiente, sviluppo economico, buona sanità … etc.
L’editore Pagliaro dichiara nel suo sito web: «noi puntiamo su autoproduzioni di qualità, creando una "family tv" capace di regalare momenti di interesse per tutti i componenti della famiglia, ma che soprattutto si inserisce in una scelta strategica che rifiuta l'omologazione».

La family TV consiste nell’avocare a se il diritto di rappresentare la popolazione e di compiere scelte in suo nome. In realtà gli invitati alle trasmissioni nelle varie rubriche rappresentano i ceti dirigenti della società, politici, capitani di aziende etc, quelli che dovrebbero “portare i voti” e spostare l’elettorato. Nel commerciale vengono chiamati i responsabili degli acquisti! Ma oggi, per fortuna, non siamo più negli anni ’50. Il monopolio mediatico non è più granitico come in passato. Rappresentare un sogno collettivo richiederebbe comprendere meglio il tessuto sociale, le sue potenzialità reali e soprattutto le diversità che costituiscono la preziosa risorsa di questo territorio.

Quindi una emittente auto referenziata che parla quasi esclusivamente di se con la pretesa di rappresentare tutto il territorio è un sogno che è destinato a svanire … all’alba!

sabato 4 giugno 2011

Non c’è nessuna signora a quel tavolo di Davide Barletti e Lorenzo Conte (2010)



Cecilia Mangini, si staglia sul fondo nero di una scenografia scarna ma essenziale dove scorrono, alle sue spalle, brani dei suoi film, fotografie ed altri elementi che costituiscono il racconto della sua vita professionale: la storia di una donna che ha attraversato ilsecolo breve lasciando una traccia indelebile del “come eravamo”.

I suoi film sono connotati da un forte impegno sociale a favore degli ultimi, degli emarginati dalla società. Il suo primo film, Ignoti alla città (1958) in collaborazione con P.P.P Pasolini mostra l’umanità che pulsa in un quartiere periferico nelle borgate di Roma e uno degli ultimi: La briglia sul collo (1072) segue le vicissitudini di un bambino caratteriale che diverge dalle regole imposte da un modello educativo che ci vuole tutti perfetti e in riga per due.

Ho citato solo questi dei suoi molteplici lavori per dare un idea della suo approccio alle problematiche esistenziali della società della quale è divenuta testimone attiva.

Il film documentario del duo salentino Barletti – Conte, è un lavoro prezioso che ricostruisce le tappe fondamentali dei lavori di una delle più importanti registe italiane del dopoguerra. Le immagini molto pulite sono trattate con grafica animata che colloca il personaggio narrante nel suo ambiente di lavoro: moviole, pellicola, proiettore.

Il racconto cinematografico si sviluppa attraverso ricordi, dichiarazioni, spezzoni di film, che ripercorrono la storia dell’italietta dal dopoguerra fino ai nostri giorni. Il montaggio è serrato e non cede mai all’agiografia di repertorio, proponendo invece un linguaggio innovativo nelle forme che risultano abbastanza pertinenti col contenuto, come il ricorso ad una vecchia macchina da scrivere che scandisce, come dei capitoli, le keywords della vita professionale della Mangini.

Una moviola fa scorrere pezzi di pellicola che animano il focus dei suoi film: la Fabbrica (Brindisi ’66, 1965), la condizione femminile (Essere donne, 1965), l’interesse antropologico (Stendalì,1959, La canta delle marane, 1961), l’inchiesta sociale (L’altra faccia del pallone,1972).

La Mangini si racconta e ci racconta un Italia che a fatica riesce a riprendersi dal periodo del dopoguerra e testimonia come il cinema (a partire dal neorealismo) abbia influenzato la costruzione di una coscienza sociale nazionale pur nelle diversità territoriali. Un Sud avvilito e stravolto da un modello di sviluppo industriale che provocava da una parte lo svuotamento demografico delle nostre regioni e dall’altra una perdita della propria identità di cultura contadina che non riusciva a dialogare con le esigenze di modernità che si andavano delineando in quegli anni.

L’incontro con la regista e gli autori è stato quanto mai interessante: due generazioni a confronto hanno trovato un punto di incontro nel cinema: il non-luogo dove i pensieri prendono la forma della coscienza di un passato che vive nel presente.

venerdì 27 maggio 2011

Il primo incarico di Giorgia Cecere

Gira, nei circuiti d'essai Il primo incarico, che è anche il primo lungometraggio di Giorgia Cecere... speriamo nel secondo.

La Cecere, come si legge nel suo curriculum, è pugliese d'origine, ha studiato regia al CSC con Gianni Amelio ed ha collaborato a Ipotesi Cinema di Ermanno Olmi. Da quest'ultimo ha appreso più che altro la lentezza narrativa che contraddistingue, ahimè, il suo primo lavoro.
È una storia da feuilleton, molto simile a quei romanzi d'appendice che hanno dato poi origine alle telenovelas: un amore contrastato (non si capisce bene il perché) tra una ragazza del popolo ed un ragazzo colto e raffinato della ricca borghesia. Non ci è dato capire meglio la qualità del loro rapporto, né il suo conflitto con la madre perché le scene si susseguono con brevi dialoghi, a volte scontati, frutto dei più banali luoghi comuni.

La nostra ragazzotta, interpretata con molta diligenza, ma anche troppo mutismo pensieroso, da Isabella Ragonese, ha il primo incarico di maestra di scuola elementare e deve trasferirsi in altra provincia. Qui trova un ambiente rurale, una comunità contadina (si evince dalle scene che la location è quella di Cisternino). La camera indugia, forse un po' troppo (o forse per accontentare i sostenitori che hanno contribuito alla produzione, Apulia filmcommission e Comune di Cisternino) tra i trulli e casolari immersi tra gli olivi mostrando un meridione ancorato a tradizioni amoralmente familistiche, per dirla col Banfield. Non vi è nessuna descrizione del contesto sociale nè della vita contadina, ma solo oleografia ben fotografata.
La neo maestra cerca di fare del suo meglio con la classe di bambini molto 'vivaci' ma intreccia nessun rapporto con la comunità ospitante perché vive come in un limbo, aspettando le lettere del suo moroso... e queste arrivano puntualmente finché un bel giorno il giovine rampollo decide di restar libero per andare avanti con le sue esperienze...

Così la maestrina cade subito nelle braccia del muratore che le ha riparato il tetto... una scena di sesso appena accennata, per non dire proprio mal girata. Da qui le nozze riparatrici e la vita senza amore di un matrimonio fatto per colmare il vuoto che sente dentro.
Ebbene tutto il racconto è privo di una trama che faccia venir fuori la psicologia dei personaggi: le loro ansie, i loro desideri. Le soluzioni narrative e registiche ci sembrano troppo banali per farci affezionare alla storia. La comunità rurale in cui si trova a vivere non è credibile, così che risulta difficile capire i motivi del suo disagio, ma anche quelle del suo ritorno nel finale. Solo i bambini-alunni hanno una carica espressiva che consente al film di respirare un po', ma il resto è tutta un'apnea poco comunicativa. Anche il finale risulta di una banalità esasperante giacché non è stato preparato a dovere. Nessuna molla è stata predisposta per poter poi scattare al momento giusto.
Il ritorno al suo paese di origine, dove si reca per incontrare il suo primo amore tornato dai suoi viaggi istruttivi e di piacere, avviene in un clima di quasi mutismo. Un amore ritrovato? Ormai impossibile? Cosa fa scattare in lei la decisione di tornare dal suo marito muratore nella comunità contadina? Il dovere di donna? L'incapacità di amare? Di prender decisioni? Interrogativi, questi che rimangono aperti ma, qualunque sia la risposta, certamente è mal posta oltre che a non risolvere il contesto narrativo.

È un peccato che questo primo incarico della Cecere sia un'occasione mancata... speriamo nel secondo...

domenica 22 maggio 2011

Baci mai dati

il business della speranza nell'ultimo film di Roberta Torre

È sicuramente una coincidenza il discorso sulla beatificazione di Papa Woytila tenuto dal pontefice Ratzinger proprio il 1 maggio il giorno dell'uscita del film Baci mai dati di Roberta Torre.
Il film, infatti, parla proprio della Speranza, coinvolgendo in qualche maniera il clero che, nella gestione di quest'ultima ha da sempre detenuto il primato.
Ratzinger ha ricordato come Wojtyla abbia riconquistato la «carica di speranza, ceduta al marxismo e al mito del progresso, e l’ha restituita al cristianesimo».
La speranza, per il Catechismo della Chiesa cattolica rappresenta una delle tre virtù teologali e viene definita come: «l'attesa fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio», per noi comuni mortali è lo stato d'animo di chi versa in stato di necessità ed è fiducioso in avvenimenti futuri desiderati di cui non conosce le esatte possibilità del loro avverarsi. In entrambi i casi è una proiezione mentale che operiamo quando ci troviamo in uno stato di bisogno, di mancanza, e tendiamo a colmarlo.

Roberta Torre ambienta la sua storia in un quartiere popolare siciliano tra palazzoni di cemento, privo di verde attrezzato e i minimi servizi comunitari, come sono quasi tutte le periferie cittadine. Il film apre con la scena della inaugurazione di una statua della Madonna che viene ‘scoperta’ al centro di una grande piazza. Collocata in un deserto urbanistico, privo degli arredi urbani essenziali (non una panchina) sembra essere il monumento all'inutilità, ed è proprio attorno a questa statua che ruota tutto il racconto. In una famiglia che fatica a sbarcare il lunario non c'è posto per l'affetto: la madre (Donatella Finocchiaro) troppo impegnata nel suo precario lavoro ed a imbellettarsi per nascondere l'età che avanza, il padre (Beppe Fiorello) improbabile allenatore di una squadretta di calcio locale, e le due figlie, diversissime tra loro, che galleggiano in questo marasma del tran tran quotidiano fatto di litigi, insulti e banalità da sottoproletariato (se ancora oggi si può usare questo termine).

La figlia adolescente (l'esordiente Carla Marchese) però fa dei sogni premonitori, o almeno così sembra, tanto che fa trovare la testa della statua della Madonna staccata e nascosta da due balordi che giocavano a pallone nella piazza.
La voce si sparge e ben presto la ragazza viene assalita da questuanti di tutte le specie: uno spaccato dei bisogni delle problematiche più comuni, dalla raccomandazione per un posto di lavoro, ai classici numeri all'otto. La madre organizza il tutto e il prete del quartiere (Pino Micol) non disprezza, anzi ... aiuta la giovane a rifarsi un look più ‘consono’ al suo nuovo ruolo di confidente di Maria e dispensatrice di ‘miracoli’…
Il business della speranza coinvolge, suo malgrado, la ragazza e tutto il quartiere, il parroco non ne è esente, ma cerca di controllare e far confluire richieste e speranze nell'alveo della Grande Madre Chiesa.
Con questo film la Torre denuncia con lucidità, e un pizzico di folklore, lo sfruttamento della povertà, del bisogno con gli stratagemmi che siamo abituati a vedere. Ricordate il Regina Pacis di San Foca e l’affaccendato don Cesare lo Deserto che ‘accoglieva’, con un vigore forse spropositato, le moldave proteggendole amorevolmente sotto la sua tunica clericale? E i processi che lo vedevano imputato di violenze che fine hanno fatto? Fonti certe lo danno in Moldavia a proseguire la sua opera pia, lontano dagli occhi indiscreti dei giornalisti occidentali. Certo, don Cesare la Madonna non l’ha vista mai, ma in quanto a far fruttare speranze e bisogni è proprio un gran manager.

La ragazza invece, che la Madonna l’ha sognata davvero, viene stravolta dal business prontamente innescato dalla madre insieme col parroco e tra le tante visite si presenta una ragazza non vedente con la quale riesce a instaurare una profonda relazione di amicizia. Tra di loro nasce l’affetto, le emozioni, le attenzioni, l’essere ascoltate, tutto ciò che non hanno avuto in famiglia e che non trovano neanche tra i loro coetanei: I baci mai dati!
E qui la regista da il meglio di se dandoci la possibilità di entrare nel mondo delle adolescenti con una profondità straordinaria: una generazione sola, abbandonata dagli adulti che non hanno il tempo di comprendere e comprendersi, completamente fagocitati dalla frenesia di una società ormai ripiegata in se stessa che non ha il coraggio di guardare all’esterno.
L’incontro empatico tra le due giovanissime risulta terapeutico: la non vedente… vede!

Il parroco accorre per stimmatizzare il miracolo ma nell’incontro tra le due giovani adolescenti, che si abbracciano in mezzo alle numerose persone accorse, vi è uno sguardo che solo loro due intendono e lo trasmettono agli spettatori: non cerchiamo all’esterno la felicità perché
Il vero miracolo siamo noi!


giovedì 19 maggio 2011

Vita e declino di un cinematografo di serie B nel cuore di Lecce: il Cinema Odeon

Appena entrati dalla monumentale Porta Rudiae, nel cuore del Centro storico di Lecce, la piccola saletta cinematografica ricavata da un salone della Manifattura Tabacchi è arroccata in cima ai suoi sette gradini. Quasi tutti sanno che nasce come cinema a luci rosse negli anni '60, ma forse non tutti sono al corrente che questo luogo, era stato affidato al CRAL (Circolo Ricreativo Aziendale dei Lavoratori) della Manifattura stessa per "ri-creare" lo spirito degli operai ... e il CRAL fece una convenzione col Sig. Rollo, attuale gestore.

Nel 1975, quando ero presidente provinciale dell'ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana) provammo a interloquire col gestore (lo stesso di oggi) per proporre il nostro catalogo (film per lo più di ispirazione sociale e culturale, tra i tanti vi era anche il primo film di Nanni Moretti (Io sono un autarchico) ma ricevemmo un netto rifiuto. D'altronde era improbabile la convivenza di Coscialunga con Libera amore mio di Mauro Bolognini, in cui Claudia Cardinale impersona la forza delle donne nella resistenza o Edwige Fenech e Gloria Guida con Ingrid Bergman e Giulietta Masina ...

Ricordo che fu un’aspra battaglia per cercare di portare nel cinema Odeon, arroccato sulla cinematografia erotica, una programmazione realmente ricreativa e culturale in quel luogo che consideravamo scippato ai lavoratori della Manifattura. Ma era il periodo in cui queste pellicole di serie B (fatte proprio per i circuiti minori di provincia, anche nel Teatro Paisiello si proiettavano le erotic movies) incontravano il gusto (sic!) di molti, compresi insospettabili intellettuali, come il poeta Vittorio Pagano che incontrai all'uscita della prima proiezione di Walalla la vergine di ferro e mi confessò, in versi baciati, il suo interesse in quel genere.

Il Cinema Odeon, dunque, è stato caratterizzato da questa scelta erotico-popolare per lungo tempo che lo ha marchiato come cinema di serie B fino alla scomparsa del genere erotico, diventando poi un cinema di seconda visione. Ma quando questa fu abolita dal mercato cinematografico non rimaneva molta scelta. A Lecce sono sopravvissute le sale parrocchiali (Antoniano e Salesiani) che, in qualche modo, hanno cercato di attrarre pubblico con Rassegne di film d'autore o ospitando Cineforum.

L'Odeon non restava che scegliere la via del cinema di qualità senza però averne la capacità strutturali e organizzative: la saletta angusta, non perfettamente insonorizzata, le pareti non scure, proiettori non proprio nuovissimi la facevano somigliare di più ad un cinebus che ad un cinematografo. Non ha un sito in internet, il suo account in Twitter ha solo 20 contatti, al telefono raramente rispondono prima delle 20...

È chiaro che per ospitare un cinema di qualità non basta noleggiare il film e proiettarlo, occorre dissodare il terreno, fare opera di aggregazione, comunicare con il proprio pubblico, instaurare relazioni col tessuto sociale... niente di tutto questo è stato fatto. È così che Giovannona coscialunga, tentando invano di ingentilirsi con abiti preziosi che non facevano intravedere più le sue formosità, è rimasta senza spettatori.

Il cinema è un fenomeno in continua trasformazione, ha una storia alle spalle, è come un corpo vivente che si adatta ai nuovi stimoli sociali e tecnologici, un buon imprenditore deve capire e vivere questi mutamenti ma, soprattutto, essere in contatto con la società civile... per migliorarla, aggiungerei.